In questo articolo è nostra intenzione presentarvi alcune considerazioni riguardanti l’attuale tassazione dei vari strumenti finanziari con relative conseguenze sugli investimenti effettuabili.
Come noto, il 1° luglio 2014 il nuovo regime di tassazione delle rendite finanziarie previsto dal Dl 66/2014 convertito dalla legge 89/2014, è entrato in vigore al fine di cambiare le vigenti aliquote sui vari strumenti finanziari.
Un’aliquota aumentata al 26% ha così sostituito la precedente al 20%. Fortunatamente non tutti gli strumenti finanziari sono stati colpiti dall’incremento: alcuni con aliquota al 12,50% ne sono rimasti indenni.
Tra le varie fonti di rendimento che hanno subito l’aumento dal 20 al 26% si citano le più importanti e comuni: gli interessi da conti correnti, libretti bancari, depositi bancari liberi o vincolati, le plusvalenze su azioni (compresi dividendi), certificati di deposito, obbligazioni estere ed emesse da società italiane, ETF e fondi comuni. La tassazione sui rendimenti dei titoli di stato invece è rimasta al 12,50%.
Si ricorda poi che questo rilevante incremento ha seguito un primo aumento imposto dal governo Berlusconi nell’estate 2011 che ha visto la precedente tassazione passare dal 12,50% al 20%. In sintesi, in appena un paio d’anni, la tassazione su quasi tutti gli strumenti finanziari è più che raddoppiata.
Prima di proseguire con le nostre considerazioni vorremmo farvi presente che se volete rimanere sempre aggiornati su tutti gli sviluppi in tema di tassazione di strumenti finanziari (e non) e relative ripercussioni, la sezione economia di jobtrading.it è perfetta. In generale, l’affiancamento di notizie di ambito politico/lavorativo e riguardanti gli investimenti ed il trading effettuato dal sito è per noi lettori fonte di importanti sinergie.
Comunque, tornando a noi, una prima considerazione da fare è prettamente di stampo economico/finanziario. Se la tassazione su uno o più strumenti aumenta (e nel nostro caso anche significativamente, cioè passando dal 20 al 26% quindi con un incremento del 30%) ovviamente gli strumenti in oggetto, avendo un costo più alto, subiranno una domanda più bassa. Per ridurre il discorso unicamente ad azioni e titoli di stato, con tassazione rispettivamente al 26 ed al 12,50%: meno azioni saranno comprate ed una buona parte di quella liquidità sarà poi investita in obbligazioni.
La seconda considerazione è invece di stampo politico ma fortemente connessa alla prima. Se la domanda di titoli di stato aumenta grazie alla tassazione minore, lo stato può offrirli ad un tasso di rendimento più basso poiché più sicuro che il suo fabbisogno sia periodicamente sempre soddisfatto dal mercato. Se quindi il rendimento dei titoli di stato italiano scende, supponendo fisso e prossimo allo zero quello dei Bund tedeschi, anche lo Spread (nonché il divario tra il decennale Btp italiano ed il corrispondente decennale tedesco) va diminuendo. E non è forse questa un’ottima mossa politica? Il presidente del Consiglio dei Ministri può così vantarsi di essere uno dei responsabili della riduzione dello spread (magari grazie alle sue riforme o alla sua mera presenza) quando in realtà questo decremento può essere spiegato, sicuramente almeno in buona parte, dal semplice incremento nella tassazione di tutti gli altri strumenti.